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Si è conclusa la mostra
PAOLO CONTI
il Castello
a cura di Leonardo Conti

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è disponibile il catalogo della mostra a cura di Leonardo Conti e Sara Bastianini

La PoliArt Contemporary di Milano ha presentato Paolo Conti. Il Castello, settima mostra personale negli spazi della galleria milanese. Sono venticinque le opere esposte tra tele e sculture, anche di grande dimensione, per costituire una fortezza reale e immaginaria in cui la conoscenza è disponibile e inattingibile a un tempo.

Quattro nere e imponenti colonne d’acciaio, assemblate con piccole forme metalliche, delimitano uno spazio vuoto, magico. Tutto intorno, in un immobile girotondo, le rutilanti tele dipinte paiono disperdere e ricostruire, in indefinite profondità, quelle stesse piccole forme già divenute colore e spazio.

Con un esplicito riferimento ai castelli incantati del mago Atlante, nel capolavoro di Ludovico Ariosto, cui l’artista già aveva dedicato un’installazione nel 1971, il Castello indica ogni domanda che l’arte si pone, il suo bisogno di creazione, la sostanza dinamica che ne muove l’incessante ricerca, la sua stessa intima conoscenza. Per questo il Castello, campo vuoto delimitato dalle grandi colonne, non è vuoto, ma si colma di quell’essere che ognuno può percepire dentro di sé e di cui ogni artista è la prima eco.

Così, nell’ottica particolare di Paolo Conti, il Castello ideale prende corpo reale nelle forme della sua ricerca, che da oltre mezzo secolo s’ispira all’entropia. E il problema dell’artista bolognese non è il rapporto, o i rapporti, tra ordine e disordine, ma le quantità di disordine in cui il senso, o i sensi, si manifestano nella sua esperienza di conoscenza estetica. Quelle stesse forme, che Conti continua ad usare dal 1969, quando le scoprì per la prima volta, in una discarica industriale di ritagli metallici, rappresentano l’incarnarsi di un generale disordine che non cessa d’inghiottire la realtà. Quelle forme, finite nel numero, ma potenzialmente infinite, perché infinita è la forza che le produce - almeno fino a quando ci sarà energia nell’universo –, sono il resto di ciò che qualcuno, in un giorno lontano, ha creduto necessario.

Eppure, se lo era, necessario, lo è stato per un tempo parziale, breve e concluso, già definitivamente cancellato persino nell’ultimo campo dell’archeologia, disciplina in bilico tra l’essere e il non essere. Allora quegli scarti, che un giovane artista raccolse, davvero sono la misura di quel perdersi cominciato subito, seppure insensibilmente, nelle maglie infinitesime del tempo. E di tutto questo passare, di tutto questo dimenticarsi senza lasciare traccia, quelle forme conservano un profilo molteplice, per quanto finito, il profilo potentemente umano della storia.

Per questo l’interno del Castello appare così vuoto, definito e protetto da potenti colonne di forme semplici e misteriose, misure di qualcosa che non cessa di disperdersi. E per questo quel vuoto non cessa di colmarsi, di un presente che qui si affaccia e qui risuona di ciò che perdendosi si conosce. L’entropia di Paolo Conti è questa misura della conoscenza. E il “negativo dell’industria” - come ebbe a definire queste forme Renato Barilli nel 1971 -, non è che il perduto subito, eppure il conservato, come lo stile di un antico brano architettonico, tempio nella cui rovina ancora si specchia il senso del divino.

Chi poteva accorgersi che quella battaglia, perduta in partenza dall’artista, era la celebrazione ed il riscatto di una sconfitta più grande, tragica quanto invisibile, insensibile, quel vuoto che cresce dentro a una civiltà e che ognuno sente?

Un ritaglio, uno sfrido: l’arte è anche un resto che, cancellandosi, trattiene un senso umano, nonostante tutto.

Quella scoperta iniziale di Conti, allora, quell’intuizione della discarica - forse l’immedesimazione che ogni intellettuale ha provato almeno una volta -, la scelta improrogabile e irremovibile di quelle forme, è stata davvero una conquista irrinunciabile non solo per lui. Del resto, come sempre, l’artista non sceglie solo per sé, ma al posto degli altri: è davvero qualcosa dell’umano che si sceglie tramite lui. È forse in questa prospettiva che potremo persino rispondere a chi chiede che cosa sia un capolavoro e perché certe opere, certe musiche, certe frasi, continuino ad essere contemporanee, per quanto antiche di secoli.

L’ingresso di quelle forme nell’arte (l’artista scegliendole ha avuto persino l’ingenua impudenza di definirle “belle”) è di per sé un atto decisivo, in cui si potrà continuare a leggere lo spirito di un’epoca, la sua deriva profonda e insondabile.

Per chi avrà la pazienza e il sottile coraggio di guardarle - l’arte è sempre stata una questione di pazienza e sottile coraggio -, ognuna di quelle forme resterà un simbolo, la cui parte perduta deve essere fondata, o rifondata, nei presenti che giungono. L’esperienza estetica, allora, è il luogo dove elaborare la potenza vitale di quei presenti.

È cominciata qui e qui si è giocata la ricerca di un artista che, in oltre mezzo secolo, ha indagato con ogni mezzo la portata della sua scelta. E quelle dure forme metalliche si sono aggregate alzandosi in colonne senza fine. E poi si sono frammentate nuovamente in spazi apparsi per la prima volta. Sono entrate e uscite dalla superficie, perché per natura sono l’altra dimensione. Sono divenute anche simulacri, ombre di luce e di colore, lontananze trasfigurate, corpi celesti, fenomeni cosmici, immagini d’ipotesi possibili e inverificabili, metafore di una scienza di ciò che si perde e non di ciò che resta.

Tutto questo continua ad accadere nei domini del Castello, in quell’infinita danza, eppure immobile, in cui qualcuno ancora, forse, potrà scegliere.

ORARIO

(Controllare sempre gli orari su Google. Eventuali variazioni saranno reperibili su Google)

Gli altri giorni e in orari diversi per appuntamento

ingresso libero

INFO
02.70636109
388.6016501 e 380.3816409
info@galleriapoliart.com
www.galleriapoliart.com

Comunicazione: Spaini & Partners


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